Ti senti al sicuro, convinto che certe storie restino confinate ai film o alle serie tv dove l’arresto improvviso è solo un colpo di scena e l’innocente alla fine torna libero. Nella finzione funziona sempre, nella vita reale no.
Poi torni alla realtà e pensi ti capita di pensare che tanto, certe cose capitano agli altri, a chi “se l’è cercata”, a chi bazzica ambienti torbidi, a chi ha la faccia giusta per farsi scambiare per colpevole.
Poi apri il libro Innocenti – Il libro bianco dell’ingiusta detenzione in Italia e ti si gela il sangue. Perché la verità è che potrebbe capitare anche a te o al tuo amico. Innocente, parola che dovrebbe bastare e invece non basta più. Non indica chi sei, ma solo quello che non hai fatto. E a volte, in un sistema che ha fretta di trovare un colpevole, non aver fatto nulla diventa quasi un difetto.
Non serve avere scheletri nell’armadio, a volte basta un omonimo scritto male su un bigliettino o un modo di dire in dialetto preso troppo alla lettera. Una consonante di troppo, una sfumatura locale, un’indagine frettolosa e ti ritrovi ammanettato senza neppure avere il tempo di capire cosa stia succedendo.
Da lì inizia il vero naufragio. Quello economico, perché il lavoro e la reputazione li lasci sul marciapiede insieme alla dignità. Quello umano, ancora più crudele, perché nessuno ti restituirà la fiducia negli altri né il sonno delle notti passate a rigirarti nel letto. Ci sono storie che ti restano incollate addosso più dei numeri e delle statistiche. Pensa a chi, una volta scarcerato, non riusciva più a vivere con la paura che bussassero di nuovo alla porta e ha tolto il citofono di casa. Non è una misura di sicurezza, è un gesto di sopravvivenza. Un segnale che la frattura resta lì, anche quando un giudice finalmente ti dice che sì, c’è stato un errore.
Le vicende raccolte nel libro non sono eccezioni rare, ma un rosario di episodi così assurdi da sembrare inventati. Persone arrestate all’alba senza che nessuno si fosse preso la briga di verificare davvero i fatti, liberate dopo giorni o mesi quando era ormai evidente che non c’entravano nulla. Prima la cella, poi le verifiche. Prima la gogna, poi i ripensamenti. Una sceneggiatura che, se non fosse tragica, strapperebbe persino una risata amara.
E in mezzo a tanto dolore resta però qualcosa di prezioso. Gli autori – che ho rivisto all’evento c/o il Tribunale di Milano per la presentazione del libro – hanno passato anni a raccogliere dati, nomi, testimonianze. Hanno costruito un archivio (errorigiudiziari.com) che non è solo carta o numeri, ma memoria viva. Hanno fatto quello che le istituzioni non hanno voluto fare, restituendo un senso di dignità a chi era stato schiacciato dall’indifferenza.
La domanda che rimane, però, è sempre la stessa. Perché ci indigniamo solo quando la questione ci tocca da vicino? Quando è la foto di uno sconosciuto sul giornale, la notizia ci scivola addosso. Ma se riconosci un volto, o pensi che possa succedere a te, allora ti svegli di soprassalto. E non c’è nulla di lontano in queste storie: il rischio è sotto casa, anche quando credi che la tua vita sia troppo ordinaria per finire dentro un errore così.
Il lavoro che c’è dietro questo libro è enorme, eppure ogni volta che racconto iniziative come questa qualcuno, in modo più o meno esplicito, mi dice con lo sguardo “embè?”. È la stessa indifferenza che circonda le malattie finché non toccano te, un amico, un figlio, un collega. Poi all’improvviso ci si accorge che riguarda tutti.
Il punto è proprio questo. La giustizia come la salute è invisibile finché non si spezza. E quando si spezza, è troppo tardi per dirsi sorpresi. Essere innocenti non basta. Serve anche restare vigili, perché la giustizia si addormenta in fretta.
