Quante monetine avrei raccolto per ogni “paziente al centro” che ho sentito? E’ diventato un passaggio obbligato in riunioni/call/convegni con aziende, ospedali, associazioni pazienti, società scientifiche. Tra un pò anche sui foglietti illustrativi. L’unico autorizzato a pronunciarlo è il paziente stesso, che immagino non ne possa più di sentirselo dire o forse non sta più cogliendo il vero significato.
Ma non perchè sia sbagliato il concetto, anzi. Ma l’abuso ne sta svilendo il significato. Risparmio le battute di chi non si occupa di salute o di chi condivide questa mia stessa perplessità, che scherzosamente riconduce un moto a luogo (per luogo, da luogo, boh) del paziente a una zona commerciale.
La verità è che l’idea di “centro” in sé ha un limite: rende il paziente un punto fisso, quasi immobile, attorno al quale tutto dovrebbe ruotare come se fosse un dato di fatto, un obiettivo già raggiunto solo perché dichiarato. Ma cosa significa, esattamente, mettere il paziente al centro? Lo si piazza lì, fermo e un po’ impalato, mentre tutto il resto gira intorno, come in una ruota panoramica che però si guarda da fuori. Il paziente è lì, in teoria, ma in pratica è un osservatore a distanza delle decisioni che lo riguardano, di percorsi che vengono stabiliti per lui, non con lui. Quando poi il giro di parole è terminato, torna al suo ruolo più classico: ascoltatore passivo, forse compiaciuto di tutta questa attenzione apparente ma con poca voce in capitolo.
E qui entra la proposta alternativa: il paziente a fianco. L’ho sentito ieri e anche visivamente è molto più ingaggiante, come direbbero gli stessi dei meeting di cui sopra.
Non stiamo parlando di una rivoluzione copernicana. È una semplice correzione di rotta, giusto un cambio di prospettiva. Con “a fianco”, il paziente smette di essere un concetto distante e assume una posizione di dialogo, quasi un partner, senza troppe cerimonie. “A fianco” suggerisce una presenza paritaria, una vicinanza vera e costante, in cui il paziente è parte attiva del processo, e non una figura al centro di attenzione che gli è stata imposta. È come quando parliamo con qualcuno che è davvero lì, senza coreografie: può rispondere, osservare e intervenire, e magari anche dissentire – insomma, partecipare.
Pensiamo a situazioni reali: il paziente che discute apertamente con il suo medico, che pone domande, espone dubbi, senza sentirsi uno studente a un esame, ma piuttosto un interlocutore alla pari. Immaginiamoci quegli incontri informali tra pazienti e associazioni, dove non ci sono programmi rigidi né brochure patinate, ma solo persone che si scambiano esperienze. È qui che “a fianco” mostra il suo vero potenziale: non è un proposito astratto, ma un modo di fare concreto, un modo per ricordarci che chi sta attraversando un percorso di cura non è solo un destinatario di servizi, ma un individuo che condivide un percorso.
E ora veniamo alla comunicazione, senza la pretesa di competere al duro lavoro che è stato fatto per la liberazione dei nani da giardino…
Quanto conta davvero la scelta delle parole? Il fatto è che una comunicazione efficace ha un impatto reale e può fare la differenza tra chi si sente ascoltato e chi si percepisce come un numero di lista d’attesa. Perché comunicare bene significa essere chiari, trasparenti e concreti. Significa smettere di rifugiarsi in slogan troppo facili e puntare alla sostanza, restituendo alle parole il loro peso. In questo modo, non solo il paziente è davvero “a fianco”, ma lo è anche chi si occupa di lui, dal medico alla famiglia, perché ogni aspetto della cura è una questione di interazione e di comprensione reciproca.
Che il paziente stia a fianco, dove può prendere parte attivamente, dove possa osservare, ascoltare e anche guidare. Perché un paziente attivo è un paziente che ha voce, e un sistema sanitario che lo riconosce si arricchisce davvero, senza troppa celebrazione, ma con il buon senso di chi sa che le parole contano, ma se usate nel modo giusto.