C’è qualcosa di ipnotico in Squid Game. Qualcosa che va oltre la trama, la violenza stilizzata, i personaggi sopra le righe. Dopo il successo  della prima stagione, sembrava inevitabile che una seconda vedesse la luce. E così, eccomi lì: pronta a rientrare in quel mondo di colori pastello e brutalità che si intrecciano in una danza macabra, spingendo ancora una volta i confini della nostra capacità di tollerare l’assurdo.

Quando è uscita la prima stagione, il mondo è rimasto ipnotizzato: era qualcosa di mai visto prima, un’esplosione di colori, violenza e critica sociale confezionata in un format che sembrava innocuo.

Ora, con la seconda stagione, l’effetto è diverso. Forse meno sorprendente, ma altrettanto potente. Ho deciso di guardarla, inevitabilmente, nonostante i ricordi della prima stagione fossero sbiaditi. Eppure, nonostante sapessi cosa aspettarmi, ho trovato la stessa forza magnetica che mi aveva catturato la prima volta. È come essere attratti da un abisso: sai che c’è solo oscurità, ma non riesci a smettere di fissarlo.

Questa seconda stagione, però, ha avuto un effetto diverso su di me. Ti chiede di riflettere, anche controvoglia, su quanto siamo diventati assuefatti alla rappresentazione dell’orrore. Gli autori, con una spietata lucidità, continuano a servirci un piatto amaro: giochi mortali, corpi che si accumulano, bare incenerite con un’efficienza che fa gelare il sangue. Ma il punto è proprio questo: il sangue continua a scorrere, e noi? Ci facciamo ancora caso? Oppure siamo diventati spettatori passivi, incapaci di reagire a ciò che vediamo?

Non si può ignorare la maestria con cui Squid Game gioca con i nostri limiti. Ti costringe a fare i conti con ciò che sei disposto a guardare. E nel frattempo, costruisce un mondo così surreale che finisci per chiederti se, per caso, non ci sia qualcosa di vero. C’è un punto, un dettaglio, una sfumatura che somiglia troppo alla realtà. E forse è proprio questa la chiave del successo: Squid Game prende qualcosa di reale e lo distorce fino a renderlo grottesco, ma non abbastanza da sembrare completamente falso.

Arriva il finale, ed è lì che ti aspetti le risposte. Ed è lì che Squid Game 2 ti colpisce di nuovo. Non ti dà quello che cerchi. Ti invita, o meglio, ti costringe così a continuare a riflettere anche quando lo schermo si spegne.

Confesso: dopo questo finale, ho sentito il bisogno di tornare indietro, di rivedere la prima stagione per cercare qualcosa che mi fosse sfuggito. Un indizio, una chiave di lettura. Volevo capire perché Squid Game abbia avuto un successo così dirompente. Ma più guardavo, più mi rendevo conto che la forza della serie non sta nelle risposte che offre, ma nelle domande che lascia.

Forse è questo che rende Squid Game così potente. Non impara nulla, e non ti insegna nulla. Eppure continui a guardare. Perché, in qualche modo, quella violenza assurda, quei giochi letali, quelle dinamiche così distorte, sembrano avere un’eco nella nostra realtà. È un pensiero scomodo, ma inevitabile.

E così, anche se non ho trovato le risposte che cercavo, so che guarderò la terza stagione. Non perché mi aspetto che mi dia qualcosa di diverso, ma perché Squid Game ha un potere che poche serie hanno: quello di trascinarti dentro, di farti sentire parte del gioco, e di non lasciarti andare.

Forse, in fondo, è proprio questo il punto. Ci fa sentire partecipanti di qualcosa di assurdo e inaccettabile, e ci lascia con una domanda: e se fosse vero?

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