Un misto di declinazione, pure sbagliata, ammesso che qualcuno se ne accorga o stia contando sulle dita come va a finire davvero il dativo o imperativo. Stanno iniziando gli esami di riparazione (attenzione che non si chiamano più così) ma non volevo fare nessuna interrogazione. Restiamo su Roses.
Nella grazia di un cognome apparentemente innocuo e profumato, c’è tutta la memoria di una guerra che più sanguinosa non si può. La Guerra delle Due Rose, quella vera, fu una faccenda di corone e dinastie, ma qui la battaglia è decisamente con meno cavalli e spade, ma più pentole, sorrisi acidi e silenzi taglienti. Eppure la metafora rimane intatta.
Dal 1990 a oggi, quando Michael Douglas e Kathleen Turner trasformarono una commedia nera in un piccolo culto, sono passati più di trent’anni, ma il remake funziona, e funziona proprio perché non copia, anzi rilegge.
La nuova versione vista ieri (eravamo in 8-in-sala-vedi foto) non si limita a riproporre il duello coniugale, ma lo fa scivolare nei quadretti perfetti di famiglie che devono stare mooolto bene per potersi permettere di distruggersi con tanto impegno. Case da rivista, cucine patinate, sorrisi Instagram-ready. E poi c’è il sottofondo inglese, che non è mai un dettaglio. Dialoghi che oscillano tra l’ironia e il veleno, pause che spiegano più di cento parole, quella patina di understatement che rende credibile persino l’assurdo. Non è solo ambientazione, è linguaggio dove la perfidia britannica ha il pregio di non urlare mai, ma di lasciare il colpo là, a decantare.
Il risultato è un film che non si accontenta di far sorridere o rabbrividire. Gioca con le aspettative e il finale lo conferma. Tutto può succedere e qui succede di più. Perché la verità è che le dinamiche di coppia non sono mai statiche, si muovono, cambiano direzione, si deformano e si ricompongono. Non bisogna averne paura, il cambiamento fa parte del gioco.
Serve però la lucidità di capire chi abbiamo davanti, chi è disposto a restare in campo e a giocare la partita fino in fondo e chi invece preferisce uscire dalla scena. Serve insistere il giusto, offrendo possibilità di recupero. Ma se non funziona la scelta più sana è alzarsi con calma, prendere fiato e avere il coraggio di decidere. Perché non è il sì e non è il no a rendere prigionieri, è l’attesa infinita. Il film lo ricorda bene, la libertà arriva quando si sceglie, qualunque sia la decisione.

