Mi hanno invitata a parlare a un convegno sulla salute mentale per l’Associazione Anna e Luigi Ravizza. E la prima parola che ho sentito rimbalzare nella testa è stata stigma. Dura, cacofonica, quasi ostile, è una parola che si piega male in bocca, come se avesse già dentro la difficoltà del suo significato.
Già l’etimologia greca (segno, ferita, marchio) racconta tutto. E’ un segno che resta inciso, anche quando non si vede più, e che in origine veniva fisicamente anche inciso sulla pelle per essere sicuri che tutti lo sapessero.
È quel giudizio sottile che scivola nelle frasi, negli sguardi, nei silenzi. È la distanza che mettiamo tra “noi” e “loro”, convinti che la salute mentale riguardi sempre qualcun altro. E invece no, nessuno ne è davvero fuori, perché lo stigma non è solo sociale, è anche personale. È quella voce che dice “non dirlo”, “tienilo per te”, “non farti vedere così”. E’ il pudore del dolore e la paura di essere ridotti a una diagnosi se riguarda te. ma vale anche se vuoi parlare di chi ha questo problema.
Poi però ci sono loro, gli ex-pazienti. Persone che la parte più buia l’hanno attraversata e, invece di allontanarsi, hanno deciso di restare, di mettersi accanto a chi oggi sta ancora nel mezzo della tempesta.
Non per spiegare, non per compatire, ma per condividere un linguaggio che solo chi ha sofferto sa parlare.
Uno di loro oggi ha detto una frase che mi è rimasta impressa più di qualsiasi definizione clinica: “Sono matto, non sono scemo.”
E chiedeva solo di essere trattato di conseguenza. Di essere visto, non catalogato. Di essere riconosciuto come persona, non come problema.
Forse è proprio qui che si misura la distanza tra lo stigma e l’ascolto, in una domanda che abbiamo svuotato di senso. “Come stai?”
Due parole minuscole, che dovrebbero aprire mondi e invece oggi scivolano via come un saluto di circostanza.
Eppure, se pronunciate con attenzione, possono essere una chiave.
Perché “come stai” non è solo una domanda di convenzione. Serve per intuire quando qualcosa non va, per leggere quello che non si dice, per cogliere quel “bene” pronunciato troppo in fretta.
Il problema è che abbiamo smesso di ascoltare. Ci fermiamo alla superficie, ci spaventiamo delle pause, cambiamo argomento appena intuiamo che la risposta potrebbe essere vera.
La salute mentale passa da qui, anche dalla qualità delle nostre domande e dalla pazienza delle nostre attese. Dal saper stare anche quando non c’è niente da dire.
Oggi l’ho visto con i miei occhi, nel lavoro di medici, operatori, volontari, e di chi, da paziente, è diventato presenza per gli altri. Persone che non curano soltanto, ma restano nella parola, nel silenzio, nell’imbarazzo.
E allora penso che la cura cominci esattamente lì, dove finisce la domanda. Forse ci salverà chi sa chiedere “come stai” e poi ha il coraggio di restare dopo la risposta.
PS= l’immagine è presa dal racconto di un medico-relatore che ha raccontato la sua prima esperienza all’estero con questi pazienti, in un clima di normalità dove era previsto di parlare della qualunque.
