C’è sempre una scena di un film stampata in testa. Per me è l’ultima di Come eravamo. L’ho rivista fino allo sfinimento, tradotta e in originale, soprattutto in questi giorni quando ti fanno assaggiare tutti i pezzi dei film di Redford appena mancato.

La scena incriminata è quella in cui Streisan lo rivede dopo la fine dello loro straziante storia, si chiedono delle rispettive vite e della figlia in comune che lui ha deciso di abbandonare.

Lei gli sistema il ciuffo (schacciandolo sul lato, manco ci fosse un bottone!) e poi la frase incriminata che in inglese suona : “Is he a good father?”, ma in italiano è diventata: “Le vuole bene?”  riferendosi al padre-supplente che a cui ha lasciato il posto.

Ora, non so voi, ma io non riesco a farmi andar giù questa traduzione. Non è solo una sfumatura ma è un vero e proprio corto circuito linguistico. Da una parte c’è la domanda su un ruolo, dall’altra su un sentimento. Due galassie diverse, come chiedere “Sai cucinare?” e sentirsi rispondere “Mi piace la cucina cinese”.

Perché voler bene e fare il buon padre non sono la stessa cosa, anzi. E lo dice proprio lui, Redford, che in quel momento ha scelto di non fare il padre della figlia. E allora la domanda torna: cosa significa davvero fare il buon padre? E qui arriva il paradosso. Puoi voler bene senza essere un buon padre, perché l’affetto non basta a tenere insieme i pezzi, non paga le bollette, non insegna a mettere la cintura in macchina. E puoi essere un buon padre senza mai pronunciare un “ti voglio bene” da pubblicità strappalacrime, perché ci sono padri che sanno fare solo con i fatti, e magari pure un po’ goffamente.

Il guaio è che continuiamo a confondere le due cose, come se l’una garantisse l’altra. Come se bastasse l’amore, o bastasse la responsabilità. Invece, no. Essere genitore è una ricetta strana, con dosi variabili e risultati imprevisti, e ogni tanto si sbaglia anche ingrediente. Forse “voler bene” è la parte facile. “Fare il buon padre”, invece, è tutta un’altra storia. E spesso è la storia che nessuno ha voglia di raccontare, quella fatta di colloqui con i professori, di sabati passati alle festine, di calzini da cercare nel cesto sbagliato, di momenti dedicati ad ascoltarli.

Voler bene è la frase che si mette in un bigliettino. Fare il buon padre è la riga di bilancio che non torna, è il tempo che non basta, è la pazienza che si sfila come un bottone mal cucito. E se proprio vogliamo dircela tutta, è anche accettare che a volte non sarai amato per quello che fai, ma ricordato per quello che hai tenuto in piedi senza applausi. I figli non hanno bisogno di padri che sappiano esserci, anche senza saperlo dire bene. Ed è proprio lì che la traduzione perde il senso

Perché voler bene è un sentimento, e resta comunque un bel punto di partenza. Ma non basta. Fare il padre è un mestiere e richiede presenza, costanza, a volte anche l’impopolarità di un “no” che pesa più di mille “ti voglio bene”.

Alla fine, i figli non ricordano solo chi li ha amati, ricordano soprattutto chi c’era. Non chi lo diceva, ma chi lo faceva. E forse è questa la vera traduzione che non andrebbe mai fraintesa.

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